CE L'HO QUI LA BRIOCHE
Carmelo Romeo
arteideologia raccolta supplementi
nomade n. 5 dicembre 2011
OÙ SOMMES-NOUS?
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Come già detto, l’ultimo che arriva ha sempre ragione.
“Estetica Relazionale1 è, evidentemente, una pietra miliare per chi vuole intraprendere un camino di comprensione dell’evoluzione degli anni novanta e, conseguentemente, anche di quella più recente… Effettivamente questa mostra2 implicitamente indica che la prospettiva di Bourriaud, come d’altronde quella della stragrande maggioranza dei curatori europei, forse non avesse prestato la dovuta attenzione al fenomeno, in atto negli anni Ottanta e nei primi anni Novanta, della controproposta “politica” all’arte “disimpegnata” che – se in Italia (e spesso anche in tutta Europa) stentava a trovare spazi adeguati – si affermava in modo solido e propositivo negli Stati Uniti.3

Era a questo fenomeno, ignorato in Europa mentre negli USA “si affermava in modo solido”, che si riferiva Ida Panicelli in una intervista, quando nel 1993 veniva nominata direttore del Museo Pecci di Prato?
Probabile, perché proprio da lì veniva.4
Allora si era nel ’93, ora siamo nel 2010 e la litania si ripropone, pur anche con le “scontate lamentazioni (di cui noi italiani siamo maestri e raffinati esegeti)” che accompagnano il ritardo più che decennale con il quale il testo di Bourriaud, del 1998, è apparso in Italia.
Se le cose si ripetono, anche noi siamo costretti a ripeterci; non certo per reclamare alcunché ma soltanto per verificare la tenuta nel tempo di una linea di pensiero e di condotta.
E se, come sembra, nulla è cambiato nella sostanza (tuttalpiù nell’attenzione5) la ripetizione diventa letterale e merita sicuramente un
Reprint6.
Poiché i fatti che ci riguardano sono pubblicamente disponibili in questo sito, è superfluo aggiungere altro se non  un breve passaggio per dire che mentre S.p.A., N.d.R., Di.Arte.divulgazione effimera, e in parte Imprinting, rispondevano a esigenze anzitutto “organizzative” (ovvero autorganizzative7), nel 1978 con Aut.Trib.17139 si chiudeva questo periodo per avviare (o tentare di avviare) una fase elaborativa dei termini con i quali preparare (o tentare di preparare) le condizioni per una riflessione organica proprio attorno a quelle questioni che negli anni Novanta  l’arte neppure più si sarebbe poste8 nonostante la melanconia causata per averle dolorosamente abbandonate.9
Dolore e melanconia tuttavia superati con troppa agilità per non somigliare ad un sollievo.
E’ però probabile che dopo oltre un decennio dalla stesura, gli enunciati contenuti in Estetica Relazionale avranno avuto trattazioni successive e ricevuto valutazioni critiche tali da rendere inutile e superato il nostro interessamento nei suoi confronti.
Noi ce lo auguriamo; anche se nessun più recente aggiustamento altermodernista ci sembra al momento allontanarla poi troppo dalla vecchia istruzione di mettersi in ordine, ma soprattutto da quella di mettersi in proprio.10
Malgrado l’anacronismo adotteremo il testo di Bourriaud come fosse un dispositivo relazionale - il quale richiede appunto di completare un lavoro e prendere parte alla elaborazione del senso11- quello nostro, naturalmente.
Non aspettatevi dunque uno spassionato esame del testo, che sicuramente ha il merito di aver contribuito a rimettere in gioco una particolare componente vettoriale applicata all’opera d’arte - capace però di spostarla solo avendo un punto finale stabilito, lungo una direzione, con un verso e una intensità ben determinati


1 - Nicolas Bourriaud, Estetica relazionale, Postmedia Srl, Milano 2010 - Esthétique relationelle, ed. Les presse du réel, 1998.
2 - Culture in action, a cura di Mary Jane Jacob, Chicago 1992-93.
3 - Roberto Pinto, Il dibattito sull’arte degli anni Novanta, in Estetica relazionale, di Nicolas Bourriaud, Postmedia Srl, Milano 2010, pag. 119.
4 - Caporedattrice di Artforum dal marzo 1988 all’estate del 1992.
5 - Probabilmente dovuta, oltre la ricordata “solida affermazione”, dal precipitare di tutti i parametri mondiali di stabilità sociale.
6 - Circolare interna del 1993, ora nell’archivio di Bunker.
7 - In un arco di tempo che va dal 1970 al 1978.
8 - Bourriaud, cit. pag. 7. – “Bisogna accettare il fatto, assai doloroso, che alcune domande non vengono più poste e, per estensione, rintracciare quelle che si pongono oggi gli artisti”.
9 - Bourriaud, cit. pag. 12 - “al progetto di emancipazione moderna si sono sostituite innumerevoli forme di melanconia”.
10 - Vedi Bonazzoli Francesca, L’altra modernità, in Corriere della Sera, 23 febbraio 2009. - Creolizzazione delle culture, nomadismo, lotta per autonomie collettive o individuali, reazione al consumismo e alla standardizzazione… In tutto questo non c’è proprio nulla che già non si sia presentato da tempo, in infiniti modi e forme, come reazioni e adeguamenti locali agli inconvenienti sociali.
11 - Cfr. Bourriaud, cit. pag. 59.


INTERSTIZI

Definendo l’opera d’arte, «al di là del suo carattere commerciale e del suo valore semantico», come un interstizio sociale, ci viene spiegato che con questo termine Marx1 indicava
“quelle comunità di scambio che sfuggono al quadro dell’economia capitalistica poiché sottratte alla legge del profitto: baratti, vendite in perdita, produzioni autarchiche… L’interstizio è uno spazio di relazioni umane che, pur inserendosi più o meno armo-niosamente e apertamente nel sistema globale, suggerisce altre possibilità di scambio rispetto a quelle in vigore nel sistema stesso”.2

Con ciò l’arte (e soprattutto quella “relazionale”,  immaginiamo) si sarebbe procurata una forma e uno spazio tattico d’azione.
E già intanto è chiaro che qui l’arte svolge un ruolo subalterno e marginale3, per nulla influente sulla forma sociale che (si) concede tali interstizi.
Perché certo non si vuole far credere che Marx affidasse a forme di scambio primitive o spurie la soluzione delle questioni sociali proprie del modo capitalistico - nel quale primitive o escogitate forme di scambio senza mediazione monetaria, non tanto si inseriscono o addirittura si sottraggono, piuttosto permangono fossili all’interno e nell’indifferenza dei rapporti di scambio più evoluti.
La produzione artistica in quanto produzione immateriale, ricadrebbe peraltro nella categoria smithiana del lavoro improduttivo, commentata da Marx in un magistrale capitolo4 nel quale viene inoltre indicata una generale ostilità della produzione capitalistica nei confronti dell’arte.5
Le due cose messe insieme (l’arte come interstizio e l’ostilità del capitale nei suoi confronti) porrebbero già l’arte e i suoi prodotti in una posizione interstiziale al modo di produzione capitalistico - che tuttavia, sempre al fine di valorizzare il Capitale, cerca e a volte trova i modi di sottomettersi formalmente e anche  sostanzialmente quelle determinate branche della produzione che gli preesistevano in forme già pienamente sviluppate.6
Forse è anche da questa relazione disorganica con il modo capitalistico che scaturisce l’ostilità di certe avanguardie che si sono nutrite della critica sociale a loro contemporanea; una ostilità che non sorgerebbe tanto da un antagonismo sociale (politico) programmatico quanto da una sorta di naturale reciproca inadeguatezza.


1 - Anche se l’A. non indica mai la fonte dei testi di Marx, vogliamo dar fiducia al citatore. Ma questo modo di procedere lo riteniamo poco adatto a stabilire una buona relazionalità con il lettore.
2- Bourriaud, cit. pag 15.
3 - La marginalità verrà definita, appena qualche pagina dopo (p. 32) come una illusione oggi impossibile. Questo implicherebbe che oggi l’arte stessa è una illusione impossibile?
4 - Karl Marx, Storia delle teorie economiche, Giulio Einaudi Editore, Torino 1954, tomo I, da p. 356.
5 - Marx, cit. p. 358. – “Il rapporto (tra produzione intellettuale e una data formazione sociale) non è poi così semplice come egli (Henri Storch) pensa inizialmente. Per esempio, la produzione capitalistica è nemica di certe branche di produzione intellettuale, come l’arte e la poesia.”
6 - Il fatto che oggi è Hollywood a rispecchiare il mondo capitalistico come lo scudo di Achille rispecchiava quello miceneo, è l’esito della sottomissione sostanziale al Capitale dell’arte e della poesia, risolta tramite una forma espressiva nata e sviluppatasi sulla base del moderno capitale e delle sue tecnologie. La forma cinematografica per altro è andata sempre più guadagnandosi i riconoscimenti dell’arte figurativa stessa fino a sistemarsi stabilmente come sua propria forma eminente e modello esemplare.


ODIERNO SVILUPPO DELLE OSTILITA’
“Quel che si chiamava avanguardia si è certo sviluppata a partire da quell’immersione nell’ideologia fornita dal razionalismo moderno; ma ormai si ricostituisce a partire da altri presupposti filosofici, culturali e sociali. E’ chiaro che l’arte di oggi prosegue questa battaglia, proponendo modelli percettivi, sperimentali, critici e partecipativi, andando nella direzione indicata dai filosofi dei Lumi, da Proudhon, da Marx, dai dadaisti o da Mondrian. Se l’opinione pubblica stenta a riconoscere la legittimità o l’interesse di queste esperienze, è perché esse non si presentano più come fenomeni precorritori di un’evoluzione storica ineluttabile; al contrario, appaiono frammentarie, isolate, orfane d’una visione globale del mondo che le appesantiva col peso di un’ideologia”.1

Tralasciamo la discutibile elencazione che schiera indistintamente in un medesimo solco Proudhon e Marx, gli illuministi e i dadaisti, per vedere a che punto siamo dopo che l’arte di oggi ha dato una mano per liberare sé stessa e l’opinione pubblica dal peso di una ideologia.2

“La battaglia per la modernità si combatte negli stessi termini di ieri, con la differenza che l’avanguardia ha cessato di pattugliare come un esploratore, visto che la truppa si è immobilizzata, freddolosa, intorno a un bivacco di certezze”.3

Un bivacco di certezze?
Non si è fatto in tempo ad accoccolarsi attorno alle calde certezze del mondo così com’è senza accorgersi che intanto il mondo si andava ravvoltolando nell’insicurezza prima di precipitarvi  - e oggi non è per niente sicuro che ne uscirà. I componenti a riposo dell’avanguardia di oggi confidano forse di scaldarsi al rogo delle Borse?
Certamente no:

“L’arte doveva preparare o annunciare un mondo futuro; oggi elabora modelli di universi possibili”.4

La possibilità offerta da questi elaborati “modelli” consiste nell’apprendere ad abitare meglio il mondo, invece di cercare di costruirlo a partire da un’idea preconcetta dell’evoluzione storica.5
Proprio così: l’avanguardia si sarebbe voltata indietro, e vedendo le truppe accucciate sulla propria coda ne approfitta per proporre alle salmerie di stanza impianti autonomi di riscaldamento – magari meglio se eco-sosteniblili: eco-logicamente ma soprattutto eco-nomicamente (anche se viene continuamente dimostrato che la vita del  Capitale è insostenibile con la vita del pianeta).
Non c’è male per gli elaboratori di modelli universalmente realizzabili.

“In altri termini, le opere non si danno più come finalità quella di formare realtà immaginarie o utopiche, ma di costituire modi d’esistenza o modelli d’azione all’interno del reale esistente, quale che sia la scala scelta dall’artista”.7

Dopo aver visto la marcia risolversi in una stasi8, il quadro della battaglia si chiude con i nuovi combattenti della modernità impegnati a mettersi comodi all’interno del reale esistente.
Nulla di male, naturalmente.
Ognuno è  libero di procurarsi la comodità che più gli piace.
La nostra, per esempio, adesso è quella di osservare un fenomeno artistico alla luce di termini tirati in ballo dal testo che lo teorizza con ricorrenti richiami ai rapporti di produzione e addirittura a Marx9, ma poi - per togliere la voglia di fare qualche passo oltre il reale esistente - assolutamente non al comunismo (ammesso che si sappia ancora cosa vuol dire); e senza volerci neppure dire troppo riguardo alla “voglia” stessa o all’impulso di elaborare modelli sociali anche in arte, “quale ne sia la scala”.


1 - Bourriaud, cit. p. 12
2 - Proprio così: di una ideologia soltanto - e non è difficile immaginare a quale precisa ideologia si allude. Tuttavia è proprio a questa ideologia che fa riferimento il nome di questo sito.
3 - Ivi
4 - Bourriaud, cit. p. 12.
5 - Bourriaud, cit. p. 13 – Ogni modello, anche solo migliorativo, non è sempre lo sviluppo di una idea preconcetta? 
6 - E non provate a ripetere che a questo sistema sociale occorrono solo dei correttivi e illudersi così di starsene fuori dall’utopia più puerile in circolazione forzata da qualche secolo.
7 - Bourriaud, cit. p. 13.
8 - “La nostra cultura esplora l’ambito della stasi […] E’ nel gelo delle meccaniche, nel fermo-immagine, che la nostra epoca trova la propria efficacia politica.”; Bourriaud, cit. p. 80.
9 - A tali propositi, non sapendo se attribuire certe amenità al traduttore piuttosto che all’autore, ci limitiamo a segnalarle: (B. p. 68) “La tecnologia, essendo produttrice di merci, esprime lo stato dei rapporti di produzione” - Detta così, sarebbe la tecnologia a dare al prodotto la forma di merce, e non i (determinati) rapporti di produzione (capitalistici) a fare di ogni prodotto del lavoro una merce. - (B. p. 44) “Tutte le merci condividono un valore, una sostanza comune che permette il loro scambio. Questa sostanza, secondo Marx, è la ‘quantità di lavoro ideale’ utilizzata per produrre quella stessa merce.” - Marx non parla di lavoro “ideale” ma di lavoro “astratto” (nel senso di generico) socialmente “necessario”, termine che dà una consistenza ben più solida. - (Ivi) “S’è detto dell’arte, e Marx per primo, che rappresentava la merce assoluta, poiché era l’immagine stessa del valore”; dove avrebbe condiviso Marx questo delirio? Mistero. E’ possibile che l’A. si sia preparato su un compendio di qualche interprete di Marx, e dunque si tratta con un Marx tanto per dire. A noi risulta che per Marx la merce assoluta e l’immagine del valore è il denaro (la moneta), non certo l’arte - che tra l’altro abbiamo vista nemica della produzione capitalistica; come potrebbe dunque rappresentarla in un modo assoluto? O qui si nasconde soltanto un’aspirazione, o si è attribuito a Marx un Azzardo Omologetico pubblicato in Imprinting nel settembre 1976. Da parte sua, Marx, in Per la critica dell’economia politica, capitolo II, scrive: ”Il denaro: …come denaro nella funzione determinata di mezzo di pagamento generale. In questa funzione come mezzo di pagamento il denaro appare come la merce assoluta, ma entro la circolazione stessa, non come il tesoro al di fuori di questa”.


MODELLI SOCIALI

Una volta convenuto che “le utopie sociali e la speranza rivoluzionaria hanno lasciato il posto a micro-utopie quotidiane e a strategie mimetiche”,  si decreta che “ogni posizione critica ‘diretta’ della società è vana, se si basa sull’illusione di una marginalità oggi impossibile, quando non regressiva”.1
Gli “altri” presupposti filosofici, culturali e sociali su cui ricostituire l’avanguardia dovrebbero dunque ispirarsi a cautela e dissimulazione?
Leggiamo:
“La funzione sovversiva e critica dell’arte contemporanea si realizza ormai nell’invenzione di linee di fuga individuali o collettive, in quelle costruzioni provvisorie e nomadi attraverso le quali l’artista modella e diffonde situazioni disturbanti”.2

A noi tutto questo sembra proprio già realizzarsi nella società esistente, che genera spontaneamente ogni tipo di situazione disturbante individuale e collettiva, fino a quella capace di squassarla dalle fondamenta; di una società nella quale l’individuo isolato e svuotato di senso viene continuamente messo in fuga dalla precarietà delle sue immediate condizioni materiali di vita e dal pauperismo incalzante, sempre più ampliato e feroce.
Niente di male nel riprodurre tutto questo nell'ambito dell'arte e dell'estetica: “Si nega l’importanza della pop art perché riproduce i codici dell’alienazione visiva?”.3
Certamente non bisogna dimenticare che il contenuto di queste proposte artistiche dev’essere giudicato formalmente: in rapporto alla storia dell’arte ecc.4, ma noi non abbiamo di fronte proposte artistiche a cui dare o togliere importanza; abbiamo invece a che fare con una teorizzazione, di “fenomeni precorritori di un’evoluzione storica”, di “modi d’esistenza e modelli d’azione”, di “modelli d’universi possibili“, tutte cose che si raccomanda di mantenere “all’interno del reale esistente”.
Nulla di male se l’arte rispecchia la società, ma per questo bisogna anche collaborarvi con originalità?

“Questa storia [dell’arte] sembra esser giunta oggi a una nuova svolta: dopo l’ambito delle relazioni fra l’umanità e la divinità, poi fra l’umanità e l’oggetto, la pratica artistica si concentra ormai sulla sfera delle relazioni interpersonali, come testimoniano le pratiche artistiche in corso dall’inizio degli anni Novanta”.5

A volte si parla di “società” e “umanità” ma invece si pensa alla persona singola.
In certe pratiche artistiche degli anni Novanta “l’artista si concentra sui rapporti che il suo [personale] lavoro creerà nel [proprio?] pubblico, o sull’invenzione [soggettiva] di modelli di partecipazione sociale”.6
Ed ecco finalmente rivelarsi le più recenti “forme” e i “modelli” sociali eredi delle funzioni sovversive e critiche dell’arte di ieri:

“I meeting, i ritrovi, le manifestazioni, le differenti tipologie di collaborazione tra persone, i giochi, le feste, i luoghi di convivialità, in breve l’insieme dei modi d’incontro e d’invenzione di relazioni rappresentano oggi oggetti estetici”.7

Se ce n’era bisogno si conferma così che l’umanità di cui si parla e della quale ci si vuole occupare non è altro che la persona e i suoi immediati dintorni nei quali distribuire inviti, fare incontri, organizzare spazi conviviali, prendere appuntamenti.8
Qualcosa ci suggerisce di mettere proprio qui un commento di Starobinski sul Settecento:

« Le argomentazioni più forti della Lettera sugli Spettacoli di J. J. Rousseau denunciano la divisione delle coscienze, l’«ognuno per sé» di un piacere privatizzato, alienato, in cui le forze comprimenti dell’amor proprio sconfiggono le forze espansive della simpatia: «Si crede di riunirsi allo spettacolo, ed è proprio lì che ciascuno si isola; è lì che si va per dimenticare gli amici, i vicini, i parenti…».
Approfondendo la stessa idea, Sébastien Mercier condanna un aspetto tipico dell’architettura teatrale del secolo: il moltiplicarsi dei palchetti, cellule di vita privata giustapposte come quelle di un alveare. In ogni palco regna in bellezza una regina tirannica, che va a teatro soltanto per essere corteggiata; l’apertura sulla scena conta meno della porta sul corridoio, da dove penetrano, come fuchi, amici e cicisbei ».
9

Un analogo quadruccio di famiglia potrebbe forse spiegare anche l’incongruenza per cui l’autore di Estetica relazionale cita preferibilmente artisti singoli, tacendo della loro eventuale trascorsa adesione, collaborazione o partecipazione, a gruppi o collettivi di lavoro10; e quando nondimeno ne nomina uno si affretta a precisare trattarsi di artisti di una determinata collezione (privata)11 o di gente che però adesso si dedica ad altro.
La malizia non è il punto, ma dare conto di anonimi gruppi che svolgono un lavoro comune nel mondo dell’arte avrebbe aperto un capitolo certamente più conseguente sul piano relazionale, ma forse poco gradevole al sistema istituzionale dell’arte, ispirato e dominato dalla proprietà privata, dunque dall’individualità e dagli interessi personali o di gruppi di attori e tutori del mercato - che magari possono anche venir disturbati ma non al punto di guastargli la festa.12

“Le mie idee sull’estetica relazionale cominciano dall’osservazione di un gruppo di artisti – Rirkrit Tiravanija, Maurizio Cattelan, Philippe Parremo, Pierre Huyghe, Vanessa Beekroft.”13

In tutta coerenza ci si è guardati attorno per osservare alcuni artisti nei loro propri microcosmi quotidiani e concludere subito che ormai “il tempo dell’uomo nuovo, dei manifesti per il futuro, dei richiami a un mondo migliore chiavi-in-mano è decisamente passato14; quindi, senza batter ciglio per il balzo nel macrocosmo, viene suonata la tromba universale per la ritirata e rilasciato il salvacondotto generale per tornarsene ognuno a casetta sua: “l’utopia si vive oggi nel quotidiano soggettivo, nel tempo reale delle sperimentazioni concrete e deliberatamente frammentarie”.15
Come il papa parla in nome di Dio, qui si è parlato in nome di tutta l’Arte attuale.
Noi non siamo troppo sicuri di questo generale adattamento, e siamo certi che non tutta l’arte post o tardo-modernista, abbia abbandonata ogni “critica diretta” all’attuale stato delle cose sociali - per quanto questa critica possa essere mai stata esercitata “direttamente” da parte delle forme artistiche.

“Durante una mostra a Le Magasin di Grenoble, Gonzalez-Torres aveva modificato la caffetteria del museo, ridipingendola di blu, posando mazzi di violette sui tavolini e mettendo a disposizione dei visitatori una documentazione sulle balene”.16

Si trattava forse di una documentazione, ad esempio, sui pericoli di estinzione delle balene ad opera dei disastri ambientali provocati dalla produzione vulcanica del capitalismo?
Non ci viene detto, e noi non lo sappiamo.
Magari sarà stato pure così, ma per l’estetica è sufficiente la vaghezza di “una documentazione sulle balene”. 
Veramente dobbiamo credere che la funzione sovversiva e critica dell’arte contemporanea si realizza ormai nell’invenzione di linee di fuga individuali o collettive?
La critica sarebbe stata “troppo diretta” se invece si fosse ridipinto di nero l’interno di un magazzino industriale abbandonato, posando crisantemi e mettendo a disposizione dei visitatori una documentazione sugli andamenti concomitanti delle Borse mondiali e delle morti sul lavoro? 17
C’era scarsa convivialità nel collocare accanto ad uno stand gastronomico tre tavoli, con targhe di piombo a centro tavola, per mangiarvi sopra i cibi serviti ai partecipanti di una festa popolare  all’aperto?18 
O ci sarebbe troppa poca inventiva di linee di fuga, nell’apparecchiare tavoli per offrire ai visitatori fette di ananas19, preparate e servite da un impeccabile cameriere, con sottofondo di musiche sudamericane e all’insegna di avvisi circa affari planetari di fabbricanti di armi con rimandi a Guernica e Hiroshima?
Intendiamoci, niente di eccezionale in questi esempi, infilati qui solo per misurare la pertinenza di qualche intuizione che ci riguarda.
Nel corso degli anni 60 e 70 certi modi realizzativi ed espositivi erano frequenti e, prima di evolversi in un vezzo, anche indispensabili in determinati programmi di lavoro orientati dalla messa in opera di rapporti diretti tra arte e vita.
Solo la distrazione accompagnata da un accresciuto e pervasivo deterioramento dei rapporti sociali può spiegarne il rilancio (ma soprattutto il successo) nella versione relazionale degli anni Novanta?
Evitiamo di trattenerci sulla questione per dire che, riguardo gli artisti di riferimento dell’estetica relazionale, sarebbe stato più onorevole non vedere nella fuga nient’altro che la fuga per affrettarsi a darla calda in pasto al conformismo e ai suoi poliziotti.
E’ invece piuttosto ragionevole considerare che in determinate contingenze storiche la fuga e il ripiegamento su sé stessi possono rientrare tra gli esiti di una lotta che travalica i singoli, della quale essi sono preda e in cui sono caduti, ma di cui sono pur sempre i caduti.
Si tratta solo di stabilire da quale parte della barricata hanno combattuto – avrebbe preteso sapere Vincent dal fratello Theo.
E’ già abbastanza preoccupante leggere che “il soggetto del video contemporaneo è raramente libero; collabora al grande censimento visivo, individuale, sessuale oppure etnico al quale oggi si dedicano tutte le istanze di potere della nostra società”.20
Anche qui: niente di male nel rappresentare i sistemi di controllo sociale; niente di male per la storia dell’arte nel collocarli nella serie dello sviluppo delle forme espressive; niente di male per l’estetica di trarne delle conclusioni e proseguire oltre.
Ecco però che se certe forme artistiche, nel loro specifico cammino, raggiungono (o cercano di raggiungere) una sostanza sociale, il loro contenuto non può più essere giudicato solo formalmente e solo in rapporto alla storia dell’arte.


1 - Bourriaud, cit. p. 32.
2 - Bourriaud, cit. p. 32.
3 - Bourriaud, cit. p. 79.
4 - Ivi.
5 - Bourriaud, cit. p. 27.
6 - Bourriaud, cit. p. 29.
7 - Ivi
8 - Bourriaud, cit. pag 47 – Per qualche recondito motivo qualcuno invece ha preferito essere visitatore inatteso e inopportuno appena terminati i pasti quotidiani negli alloggi popolari di Corviale (vedi No.made n. 0,3, dic. 2009, p. 83).
9 - Jean Starobinski, L’invenzione della libertà, 1700-1789, ed. Abscondita SRL, Milano 2008, p. 88.
10 - Come per il suo preferito, Felix Gonzalez-Torres,  che era stato un componente effettivo del newyorkese Group Material, fondato nel 1979.
11 - Cercle Ramo Nash. - Bourriaud, cit. p. 26.
12 - L’osservazione è svolta anche da Pinto, cit. p. 120: ”In fondo, le tante azioni e collaborazioni di collettivi artistici come Gran Fury e Group Material (ma il discorso si potrebbe estendere a tutte le pratiche di attivismo artistico), sarebbero potute diventare sicuramente fonte di riflessione per la materia trattata in questo libro.” 
13 - Intervista in Artforum, aprile 2001.
14 - Bourridaud, cit. p. 47.
15 - Bourridaud, cit. p. 47.
16 - Bourriaud, cit. p. 58.- La mostra a cui si riferisce è I, Myselsf and Others, del 1992.
17 - Allestimento del 1972 da realizzare in un opificio abbandonato del Porto Fluviale di Roma.
18 - Intervento in piazza Bernini a Roma nell’ottobre 1974. In quell’occasione Claudio Cintoli fece proiettare il suo filmato Crisalide (film a 16mm, colore, sonoro, durata 20'00").
19 - Prassifollia di-in gruppo, galleria L’Alzaia (Roma 1978) e Analisi del Periodo: Guernica, galleria La Salita (Roma, 1982). - Per questa nota e la precendente vedi Pagina di Compensazione 8c)
20 - Bourridaud, cit. p. 75. 


SERVIZI DA CAMERA
“La partecipazione dello spettatore, teorizzata dagli happening e dalle performance fluxus, è diventata una costante della pratica artistica”.1

Era inevitabile che nell’attuale fase capitalistica di prolungata decrescita della produzione materiale e opposto sviluppo del settore terziario, si sarebbe verificato anche un trascinamento delle realizzazioni artistiche nell’ambito del settore dei servizi tramite un sempre più accentuato depotenziamento dell’oggetto a vantaggio della esposizione.
In questo procedere si poteva prevedere che la componente sociale dell’arte, liberatasi dell’opera, si sarebbe prima o poi risolta in prestazione d’opera ed esibita autonomamente come mero servizio (più o meno sociale) al pubblico.
La formula del passaggio sarebbe il “criterio di coesistenza”, ossia la trasposizione e la proiezione nel reale del (simbolico) contenuto sociale e politico, e per conseguenza il punto d’arrivo non sarebbe più rappresentato  dall’opera individuale ma da ciò che essa produrrebbe nella collettività degli spettatori.2

“Nelle mostre internazionali si vedono sempre più stand che offrono vari servizi, da opere che propongono all’osservatore un contratto a  modelli di partecipazione sociale più o meno concreti”.3

Ma non ancora è sufficiente dire che “l’estetica relazionale può riprodurre, se pur in modo deformato e spesso critico, i meccanismi alla base delle trasformazioni economiche del capitalismo avanzato: proprio a cavallo degli anni Novanta la nostra società ha trasformato il proprio processo produttivo da creatrice di merci a fornitrice di servizi4.
Perché i servizi sono una generalizzazione ancora troppo astratta.
Ci sono servizi che cadono nella sfera della produzione o della distribuzione, e ci sono servizi che cadono nella sfera del consumo: servizi alla persona e per il tempo libero, e servizi sono pure quelli per l’intrattenimento e lo svago, per lo spettacolo e per la distrazione.

“Rendendo piccoli servizi, l’artista colma le faglie del legame sociale… Con piccoli gesti, dunque, per un’arte con propensione angelica, insieme di compiti effettuati a latere o al di sotto del sistema economico reale, al fine di ricucire pazientemente il tessuto relazionale. Questa è la modesta ambizione di Christine Hill, che si dedica a compiti subalterni (fare massaggi, lucidare scarpe, stare alla cassa d’un supermercato, animare riunioni di gruppo…), mossa dall’angoscia che provoca il senso d’inutilità”.5

Angelici servizi nel prendersi cura del sé ricucendo ciò che risulta socialmente sdrucito...
E’ però paradossale che a ben guardare tra i fili del rattoppo sociale troviamo perfino quello del lavoro salariato (adeguatamente umile e mal retribuito, come vogliono i tempi correnti6) trasfigurato “alla cassa” della sua forma artistica, a rimedio per il “senso d’inutilità”; ed è come dire che la relazione sociale alienante per eccellenza sarebbe l’antidoto di sé stessa! Dall’arte come prodotto farmaceutico per imbecilli di Picabia, all’arte come sostegno omeopatico per adeguati?
Non c’è male per l’originalità creativa e il modesto contributo alla rassegnazione.
Sembrerebbe proprio che l’estetica relazionale sia “leggibile come ingenua mimesi dell’estetizzazione delle forme narrative dello sfruttamento capitalistico7, e che pertanto si sia attirata critiche provenienti da “sinistra”, che l’hanno vista come una legittimazione dello status quo, con artisti dalle posizioni solo parzialmente (e superficialmente)  “antagoniste”.8
Certamente non è scontato che un’arte che si lascia ispirare dall’esterno sociale sia necessariamente in conflitto con i fondamenti di quella stessa società9;  ma fosse pure in pieno accordo, quello che “promette” di più non è per niente legato a manifestazioni di aperto antagonismo o adattamento da parte degli artisti nei confronti della propria società, ma a quanto è possibile ricavare dalle loro opere in termini di conoscenza delle condizioni e della tenuta (fisica) del sistema sociale in un determinato momento, indipendentemente dal complesso di ideazione e volizione che costituirebbe il pensiero del singolo artista al riguardo. >


1 - Bourriaud, cit. p. 25
2 - Cfr. ivi, p.79
3 - Ivi
4 - Pinto, in Bourriaud cit. p. 121.
5 - Bourriaud, cit. p. 37. – Come evitare di ricordare il modello Irina Palm, del film di Sam Garbarski del 2007?
6 - Servizi effettuati “sotto” il sistema economico reale, non “contro” o “fuori”. Riscontriamo molta coerenza: non ci si dimentica mai di segnalare il rispetto dovuto.
7 - Stewart Martin (2007), in Bourriaud, cit. p. 120 (nota).
8 - Cfr. Pinto in Bourriaud cit. p. 121. – Ci sarebbe solo da stabilire quali sono i reali riferimenti politici di questa indefinita “sinistra”, e magari scoprire che non sono affatto diversi di quelli meramente oppositivi e “miglioristi” della stessa estetica relazionale. 
9 - Cfr. Pinto, in Bourriaud, cit., p. 121.
UN AZZARDO OMOLOGETICO
Ogni opera d’arte potrebbe essere definita come un oggetto relazionale…”.1

Riconosciuto così che l’arte ha sempre avuto e svolto funzioni relazionali, ci si può chiedere se ci stiamo annoiando con delle fantasticherie attorno ad un luogo comune, o invece se qui si tratta in realtà  di “estetizzazione delle relazioni”; ossia della reificazione dei rapporti di ambito personale, confidenziali e finanche intimi, quindi di un passo ulteriore, integrativo e “specializzato”, nella generale mineralizzazione della vita.

… le figure di riferimento della sfera dei rapporti umani sono ormai diventate appieno “forme” artistiche…2

Al Mercato mancava ancora quest’ultima, ineffabile merce? Sembra proprio di sì.
D’altronde solo i rapporti di produzione capitalistici trasformano ogni genere di cosa in una merce, sia pure nella forma immateriale di un servizio.
Forse in questa metamorfosi si cela l’enigma della fascinazione estetica nei confronti di rapporti umani divenuti appieno “forme artistiche”.
Per collaudare quest’ultima congettura circa la ragione pratica per cui modi di vita usuali (quali ad esempio inviti personali,  incontri, spazi conviviali, appuntamenti ecc.) potrebbero suscitare, oltre a calore umano anche suggestioni estetiche, proviamo a sottoporre un brano di economia politica3 alla commutazione di alcuni  termini, e stare a vedere se si dà luogo all’insensato o frutta qualche imbeccata utile  alla questione.

Soltanto l’abitudine della vita quotidiana può far apparire come una cosa scontata e di tutti i giorni il fatto che un rapporto sociale… prenda la forma di un oggetto…
[Soltanto la desuetudine alla vita quotidiana può far apparire come una cosa fantastica ed eccezionale il fatto che un oggetto prenda la forma di un rapporto sociale…]
… per cui il rapporto che unisce le persone nel loro lavoro si configura invece come un rapporto in cui sono le cose ad essere riferite l’una all’altra e alle persone.
[…per cui il riferirsi delle cose (merci) una alle altre si configura invece come il rapporto che unisce le persone nel loro lavoro (sociale)]. 

Sarebbe dunque la mancanza o l’inadeguatezza di relazioni pienamente sociali nella vita quotidiana a rendere auratici dei banali inviti, incontri, spazi conviviali, appuntamenti ecc.?
Sicuramente questa conclusione non aggiunge nulla, e per l’estetica relazionale è solo una evidenza da cui prende le mosse; tuttavia il modo  con cui ci si è arrivati non è privo di conseguenze.
Spesso si parte dalla fine, da un risultato bell’e pronto, come ad esempio dal fatto che “l’arte doveva preparare o annunciare un mondo futuro e oggi elabora modelli di universi possibili”.
Così non ci si interroga da dove sorgerebbe l’impulso stesso che ha spinto le avanguardie4 a condividere con i contemporanei le illusioni per un mondo diverso e magari migliore; né da dove trarrebbe ancora oggi alimento il desiderio (o la necessità) di “relazioni” presente in molta arte (relazionale) degli anni Novanta.
D’altronde se non si vogliono relegare questi tipi di istanze tra i ghiribizzi dell’umano fantasticare, occorre dargli (o provare a dargli) una polpa materiale e storica; e non tanto per rispondere con un riflesso ideologico, ma perché a richiederla è l’estetica relazionale stessa.
Inoltre, se nella merce la mistificazione è ancora molto semplice da vedere, in arte le mistificazioni possono non esserlo affatto.


1 - Bourriaud, cit. p. 26: “Ogni opera d’arte potrebbe così essere definita come un oggetto relazionale, il luogo geometrico di una negoziazione, con innumerevoli interlocutori e destinatari” - p. 101, Glossario: ARTE: “2. La parola “arte” sembra oggi solo un residuo semantico di questi racconti, la cui definizione più precisa è la seguente: l’arte è un’attività che consiste nel produrre rapporti col mondo attraverso segni, forme, gesti ed oggetti.” – Forse, piuttosto che di una estetica particolare si tratta di un estetismo; forse allora sarebbe utile fare una ricognizione completa sul campo per tracciare una linea relazionale  dell’arte contemporanea.
2 - Bourriaud, cit. p. 29.
3 - Marx, Per la critica dell’economia politica, ed. Newton Compton, Roma 1972, p. 46. -  “Soltanto l’abitudine della vita quotidiana può far apparire come una cosa scontata e di tutti i giorni il fatto che un rapporto sociale di produzione prenda la forma di un oggetto, per cui il rapporto che unisce le persone nel loro lavoro si configura invece come un rapporto in cui sono le cose ad essere riferite l’una all’altra e alle persone. Nella merce questa mistificazione è ancora molto semplice”
4 - Tenere presente anche la generale ostilità della produzione capitalistica nei confronti dell’arte e della poesia, segnalata in precedenza.


UTOPIE

Come sarebbe assurdo giudicare il contenuto sociale e politico di un’opera ‘relazionale’ sbarazzandosi puramente e semplicemente del suo valore estetico1,  altrettanto assurdo sarebbe sbarazzarsi del contenuto sociale e politico di un’opera relazionale  per  tener conto solo del suo valore estetico.
Certo il “criterio di coesistenza” risolverebbe l’opposizione tra i due giudizi, se solo fossimo interessati a risolverla; invece noi preferiamo affidare ad altri l’esortazione a non dimenticare che “il contenuto delle proposte artistiche deve essere giudicato formalmente” 2 per facilitarci un esame dei richiami sociali e politici ricorrenti in Estetica relazionale - quali, ad esempio: fenomeni precorritori di un’evoluzione storica, costituzioni di modi d’esistenza e modelli d’azione all’interno del reale esistente, o elaborazioni di “modelli di universi possibili.”
Prendiamo quasi a caso la pagina 69 del testo in questione:
Se questi artisti3 prolungano veramente quella idea di avanguardia che era stata gettata con i rifiuti del modernismo… non hanno l’ingenuità o il cinismo di  fare come se l’utopia radicale e universalista fosse ancora all’ordine del giorno. Nel loro caso si potrebbe parlare di micro-utopie, di interstizi aperti nel corpo sociale. Questi interstizi funzionano come programmi relazionali … in cui ciascuno può rientrare in contatto con gli altri, …in cui la gente impara daccapo cosa significano convivialità e condivisione,… in cui i rapporti professionali diventano la scusa per una festa, …. in cui le persone hanno sempre davanti a sé l’immagine del proprio lavoro”.

Dunque: sulla base delle condizioni generali della produzione sociale esistente e dei rapporti tangibili tra gli uomini, gli artisti “inventano modi di vita, oppure rendono cosciente un momento particolare nella catena di montaggio dei comportamenti sociali, permettendo d’immaginare un ulteriore stadio della nostra civiltà4… da attuare con la somma aritmetica delle buone volontà di singole persone raccolte in pretestuosi banchetti tra professionisti nei quali imparare nuovamente a stare insieme condividendo coktails?
Come non ci si spinge oltre il capitalismo, non ci si spinge neppure oltre i propri appartamenti e il proprio cervello, col quale ci si permette solo d’immaginare, senza neppure spingerlo almeno a “immaginare di realizzare” praticamente. 
Cosa si concede di immaginare poi?
Nemmeno una società per intero (nuova o diversa che sia), ma solo un altro (ulteriore) momento (stadio) della società-civiltà così com’è adesso...
Se intendete andare da qualche parte, non muovete un passo: già ci siete.
Tutt’al più questa società andrebbe corretta e perfezionata!
Non venite a raccontarci che con simili intenti  possa succedere di “disturbare” qualcuno che sia ancora vivo.
Allora era il 1998, oggi siamo nel 2011, e credo che ormai proprio tutti si sono accorti che la “nostra civiltà” sembra proprio non farcela più a restare lei stessa all’interno del suo proprio reale esistente.
Al posto dell’utopia radicale e universalista, all’ordine del giorno è subentrata la crisi universale dell’unica vera utopia realmente (r)esistente: quella che immagina eterna la forma capitalistica dominante, nutrendosi dell’illusione, continuamente smentita dai fatti, di potersi tenere i benefici ed evitarne gli inconvenienti. 
Finito il dramma, è tornata l’emozione – diceva ancora Jerry Saltz nel 2000. Sfortunatamente la gente ha nostalgia del dramma e si lamenta che stiamo facendo solo passi da bambino. Ci sono trend e tendenze, parabole e controtendenze, coincidenze e prese di posizione, ma nell’aria c’è anche qualcos’altro. Gli artisti hanno trovato un modo di raggiungere il cinismo e le scarse aspettative nei loro confronti e occasionalmente rispondono facendo passi azzardati, giusti e determinanti, altro che passi da bambino".5
Ora siamo sempre nel 2011, e in questo ultimo decennio la gente ha avuto tutto il tempo e le occasioni di ritrovare il dramma e di fronteggiarlo come può, ossia – per quanto se ne dica - con passi infantili (che, come per le malattie, sono sempre meglio dei passi senili).
Assaporatevi questo momento, - continuava Saltz -  gustatevi le contaminazioni e sorridete quando vi dicono che non c’è niente di interessante in giro. Presto costoro si sveglieranno o spariranno. Il genere umano non ha mai smesso d’essere creativo, e se la gente non vede cosa sta succedendo, non significa che non sta succedendo niente, ma solo che non se ne accorge”.6
Che il genere umano e la gente possono non vedere cosa succede, implica però che possono anche non accorgersi affatto da cosa vengono realmente spinti in avanti.


1 - Bourriaud, cit., p. 79.
2 - Ivi.
3 - Ci si riferisce a Rirkrit Tiravanija, Philippe Parremo, Carsten Höller, Henry Bond, Douglas Gordon, Pierre Huyghe.
4 - Bourriaud, cit. p. 70.
5 - Jerry Saltz, Vedere ad alta voce, ed. Postmedia, Milano 2010, p. 60.
6 - Jerry Saltz, ivi.


SURROGATI E RITORNELLI

Le società si esprimono nei loro spettacoli, e gli spettacoli ricreano il legame sociale… Ma che fare? – ci si chiedeva nel ‘700, alla vigilia della rivoluzione borghese1. Certamente scrivere un nuovo teatro. E sognare di partire con qualche amico per fondare una colonia sull’isolotto di Lampedusa”.2
La domanda e la risposta sembrano essersi presentate nuovamente nell’epoca del capitalismo stramaturo negli stessi termini con i quali si erano presentate all’epoca dei Lumi.
Solo che allora si rispondeva con la voce di una vecchia società che stava generandone una nuova, oggi si finisce per parlare con la voce di una società sterile, che per sopravvivere alla propria universale decrepitezza senile deve distribuire argomenti per appartarsi a badare ai fatti propri dandosi da fare nei rispettivi, amicali e lampedusiani, micro-cosmi di contenzione.
Nondimeno vogliamo prendere atto che l’estetica relazionale non considera sé stessa come una regressione in microcosmi personali, ma si dice fortemente tesa alla formazione di comunità. Si tratterebbe solo di vedere se la sua idea di comunità non sia altro che la puerile somma meccanica di microcosmi personali, per quanto allargati possano essere.
L’artista relazionale si concentrerebbe sull’invenzione di modelli di partecipazione sociale.
Ciò che colpisce nel lavoro di questa generazione di artisti è in primo luogo la preoccupazione democratica che lo anima”.3

Democrazia: eccola qui la parolina che rappresenta il vertice massimo a cui aspira l’inventore di modelli talmente possibili e fattibili da essere già in circolazione forzata da parecchi decenni.
Alla luce di questo salvifico termine, rileggiamo il “criterio di coesistenza”: trasporre e proiettare nel reale la (simbolica) preoccupazione di democrazia dell’opera, per cui il punto d’arrivo non è l’opera individuale ma ciò che essa produrrebbe nella collettività degli spettatori in termini di collaborazione democratica… alla conservazione dell’attuale stato delle cose.
Coesistenza, partecipazione e democrazia: non è proprio questo l’esausto modello trinitario che ci viene propinato da sempre?
O si tratta di reclamarne dosi sempre più massicce?
Neppure sostenuto a piena voce questo ritornello  frutterebbe un tocco di originalità e senso pratico.
Così, se non si regredisce in microcosmi personali nemmeno si progredisce verso nuove forme sociali.
D'altronde l’estetica relazionale sa perfettamente che con la disposizione a mantenersi all’interno del reale esistente neppure all’immaginazione è consentito andare oltre mezze-forme e formelle “interstiziali”, sistemate a distanze prudenziali per conservare l’equilibrio del sistema globale realmente esistente, ossia: quello del capitalismo.
- Bisogna per forza andare oltre?
- Credete che sia meglio vietarselo?
O qui c’e dell’altro, o non c’è proprio nulla - ci siamo detti.
Allora, sebbene questi “modelli” non riguardano affatto l’intera società, ma solo la partecipazione sociale a quella esistente4, l’impulso o la disposizione ad inventarli deve rispondere alla necessità (più o meno sentita, più o meno consapevole) di una forma sociale superiore, capace di riassumere nella sua generalità le varie particolarità espresse in tali modelli.
Ma non è ancora sufficiente che questa forma sia puramente mentale; già in questa stessa società deve mostrare la sua potenzialità in modo del tutto concreto, sia pure celata negli “interstizi” sociali o abbozzata in fenomeni sporadici, occasionali e poco chiari.5
Forse – ci siamo detti - anche nei modi estetici relazionali è possibile scorgere le avvisaglie di una tensione insopprimibile tesa verso una società reale, pienamente umana, generica dunque di specie; a cui però l’arte in preda alla fattibilità può reagire soltanto con buoni propositi, ossia con dei surrogati.6


1 - Starobinski, cit., p. 89
2 - Ivi. – E intanto questo stesso luogo è diventato realmente un sogno angoscioso per i diseredati di un intero continente.
3 - Bourriaud, cit. p. 58.
4 - Attualmente questo tipo di richiesta sembra essersi notevolmente evoluta, e si sta assistendo a situazioni sempre più estese di attacco diretto alle strutture dei poteri reali (apparati politici degli Stati e sistema finanziario mondiale). 
5 - Così, ad esempio, da qualche decennio assistiamo all’intensificarsi del fenomeno che vede molta parte delle popolazioni mondiali dei grandi agglomerati urbani costretta ad organizzarsi collettivamente o in forme più o meno comunistiche per sopravvivere ad una economia mondiale che stritola la persona singola. Ad es. il proliferare delle intentional community.
6 – Vedi il testo completo di Una vita senza senso nel sito www.quinterna.org


ANTICIPAZIONI

Lasciando fuori la classica malizia sull'avant-garde1, è stato opportuno riprendere quella che qui viene definita come “funzione sovversiva dell’arte”, specialmente se la si intendeva capace di un’azione effettuale, più o meno vigorosa, più o meno efficace sulla realtà sociale. Idea magari generosa e che solo una illusione su sé stessa poteva alimentare.
Idea tuttavia ricca di conseguenze formali e riflessioni; e che però, se non vuole ridursi ad una oziosa fantasia, quando non vi sono ancora oggettive condizioni storiche per trasformarla da potenziale in attiva2 deve ritrovare almeno le premesse teoriche più conseguenti alla propria sostanza.
Per questo, e nel contesto della recente ripresa di comportamenti devianti dalla conservazione fisica dell’intero sistema sociale, non siamo poi troppo interessati a cosa si è detto e si dice delle esperienze di arte relazionale, quanto alle loro capacità di misurare, anche in arte, l’urgenza di nuovi rapporti sociali.
Di mira non sono dunque tanto gli artisti e il loro lavoro, quanto la piega conformista che alla fine può risultare nel prendersene cura con argomenti troppo generici.
Se ci siamo affaticati a frugare tra le pagine di Estetica relazionale, non è stato certo per rinegoziarla e portarsela via così com’è.
Perché, se le cose stanno come le vediamo noi, anche concedendogli una funzione (teorica) oppositiva allo status quo3, frequentando poi fiduciosi e con troppa disinvoltura certe sue argomentazioni si rischia di ridar fiato (per quanto corto possa essere quello dell’arte) a quel fatale errore politico conosciuto come “immediatismo”.4
Ce l’ho qui la brioche!”, era il tormentone che un comico degli anni Ottanta ripeteva battendosi sulla tasca dei pantaloni, dove di solito c’è il portafoglio (ed era come se rispondesse in termini personali - sempre possibili senza per questo minacciare una Bastiglia - al consiglio dato al popolo di mangiar brioches se non aveva più pane con cui sfamarsi).
Tuttavia, nell’ambito dell’arte, dell’immaginario e della passione, un certo “immediatismo” è inevitabile, ma innocuo se mantenuto nei suoi ambiti - e con pure una qualche modesta e limitata efficacia propagandistica.
Ma l’arte o l’estetica relazionale potevano fare di più che immaginare ricette per brioches?
Sicuramente si avvicinano alla soglia nella quale non c’è più nulla da chiedere a questa società, ma si fermano prima di metterci piede; perché qui termina il terreno simbolico e subito oltre inizierebbe il campo dell’aperto scontro sociale, che non è certo affidato alla volontà del singolo col suo criterio di coesistenza capace di allestire carnevali soltanto metaforici, ma a quella forza materiale che anticipa il futuro e che tuttora si agita in questa stessa vecchia società per preparargli l’ultima festa che la seppellirà per sempre tra le forme preistoriche dell’umanità.
Se l’arte (pratica) non poteva fare diversamente, l’estetica (teorica) poteva certamente spingersi oltre; invece confessa di sapere tutto questo5, ma pure lei si blocca davanti agli aspetti formali 6, senza neppure osare di nominare apertamente la forma politica in possesso di un programma storico che solo può praticamente capovolgere le prassi sociali dominanti in modo irreversibile, ossia evolutivo.
Dire che non ci sono chiavi-in-mano per il “tempo dell’uomo nuovo, dei manifesti per il futuro, dei richiami a un mondo migliore”, può non portare semplicemente a rinunciarvi per preferirgli una cuccia nei vicoli interstiziali tra i grattacieli.
L’artista che si concentra sull’invenzione di modelli sociali  per lasciare tutto così com’è non è certo il poeta ateniese di Cheronea che di fronte a Filippo “difende il suo genio e il genio della Grecia, l'eredità e l'avvenire di una civiltà. Quando il suo nemico è soltanto un soldato, anch'egli è solo soldato per salvaguardare ciò che è in realtà. Le armi che brandisce non rappresentano né il suo mestiere né il suo gusto, non proclamano né le sue abitudini né le sue preferenze. Le ha prese unicamente per poterle deporre e far ritorno ai propri  lavori ”.7
Certo costui continuerà a fare pessimi componimenti se prima di Cheronea era un cattivo poeta; solo che dopo Cheronea non saranno più gli stessi, perché la loro mediocrità parteciperà dell’eccellenza della poesia che verrà dopo Cheronea.
Nell’attuale moderna produzione vulcanica di merci e servizi, anche la particolare produzione artistica, favorita dalla distribuzione e diffusione in tempo reale dei beni prodotti ha ricevuto un tale incremento esponenziale delle stesse possibilità estetiche storicamente e socialmente disponibili che sembra aver raggiunto ormai una soglia nella quale il singolo artista, surclassato e sepolto sotto l’immane produzione d’ogni genere di cosa, svanirebbe del tutto, non fosse per il persistere della divisione del lavoro e del valore di scambio, che tuttora lo costringe a risolvere sé stesso e i prodotti del proprio lavoro nella forma dominante della merce.
L’accelerazione impressa alla diffusione delle informazioni ha inoltre intensificato quel fenomeno che procura il generale beneficio che ci evita di svolgere nell’isolamento un lavoro reso inutile da un risultato già conseguito altrove, da condividere immediatamente e consentire senz’altro di procedere più avanti, in cerca di ciò che manca.8
Ormai il prodotto del lavoro dei singoli si dimostra con sempre maggior evidenza come prodotto sociale e le sue particolari realizzazioni come conseguimenti comuni, senza per questo dover necessariamente rammaricarsi per non averle compiute personalmente; tanto che possiamo anche arrivare a dire che tutta intera l’arte e le sue singole opere, non solo ci riguarda, ma addirittura ci appartiene.
E’ così che l’umanità ha lavorato e lavora: sempre sotto il sole, incessantemente e senza farsi distrarre se alcuni si concedono il riposo o si abbandonano all’ozio.
Se tutto ciò non appare ancora con il necessario risalto è solo per un equivoco dovuto ad un mondo realmente rovesciato.
Allora ciò che manca è solo un chiarimento critico.
Siamo forse dei folli?
Sicuro.
Ma non più del borghese Rousseau quando  prospettava futuri spettacoli per i “popoli felici”:
Ma quali saranno infine i soggetti di tali spettacoli? Che cosa vi si mostrerà? Niente, se si vuole. Con la libertà, ovunque regni l‘affluenza, anche il benessere vi regna. Innalzate nel mezzo di una piazza un palo incoronato di fiori, riunite il popolo, e avrete una festa. Fate ancor meglio: date spettacolo con gli spettatori; rendeteli essi stessi attori; fate in modo che ciascuno si veda e si ami negli altri, affinché tutti ne siano meglio uniti.9
Siamo forse dei visionari?
Probabile.
Ma non meno del comunista Marx:
“Quando operai comunisti si riuniscono, loro scopo è innanzi tutto la dottrina, la propaganda etc. Ma al tempo stesso acquistano con ciò un nuovo bisogno, il bisogno della società, e quel che appare un mezzo diventa uno scopo. Questo movimento pratico lo si vede nei suoi risultati più splendidi quando si osservano gli ouvriers socialisti francesi riuniti. Fumare, bere, mangiare etc., non sono più ivi mezzi di unione o associativi: la società, l’unione, la conversazione, che la loro società ha per scopo, bastano loro, la fraternità umana non è una frase, ma la verità presso di loro, e la nobiltà dell’umanità ci splende incontro da quelle figure indurite dal lavoro”.10
Eccole qui riunite alcuni delle “procedure” incontrate nell’arte “relazionale” degli anni Novanta: «la festa» o «niente, se si vuole», «dare spettacolo con gli spettatori», «fumare, bere, mangiare assieme», «il bisogno della società», sono tutti dispositivi e modalità già teorizzati e praticati fin da quando il pensiero, borghese o proletario che fosse, era ancora animato da uno spirito capace di intravedere e libero di esprimere le proprie istanze “alla scala” dell’intera società e della storia.
Dopo aver capito che il movimento delle forme sociali si svolge lungo il percorso che va dal regno della necessità verso il regno della libertà dell’intera specie, si capisce anche che la forma di organizzazione sociale superiore e ulteriore al capitalismo è, e non può essere altro che la forma comunistica espressa dal suo programma storico.
Questa potrebbe non essere una risposta ma solo un’affermazione preconcetta11, ed è messa qui solo per dire che senza l’esistenza pratica di un movimento reale che abolisce lo stato di cose presenti, anche molte realizzazioni e pronunciamenti dell’arte moderna, inclusi quelli relazionali, si ridurrebbero allo spaesato balbettio della speranza attorno ai fuochi di bivacchi accesi nei palchetti di un teatro che intanto sta andando in maceria.
Non possiamo prevedere come sarà l’arte e la poesia della nuova forma sociale; ma sapendo che la successione delle forme sociali ha generato una conoscenza ogni volta superiore e sempre più diffusa della precedente, possiamo prevedere quale sarà la potenza che libererà un’arte e una poesia quando vi lavorerà collettivamente l’intera specie umana.12
Où sommes-nous?” - ci eravamo chiesti?
Siamo in un sistema sociale che ha raggiunto il proprio limite fisico di rottura.
Qui sommes-nous?” - dobbiamo chiederci?  
Qualcuno a suo tempo aveva risposto: dei mutanti.
A tanti anni di distanza da quella improvvisata risposta, sembra proprio che la condizione di mutanti riguardi l’intera specie umana che ancora non riesce a fare il successivo passo evolutivo.       Intanto, come mutanti che hanno capito e somatizzato tutto questo, uno alla fine può anche concedersi il lusso dello stile, come pure abbandonarsi a gesti immediati di beneficenza,  filantropia o attenzione verso gli altri; ma senza la pretesa di travisarne la portata esclusivamente individuale per procurarsi una particina nello show.
Dopo tutto, per tirare a campare tanto vale fare gli esteti delle belle forme, piuttosto che raccattare rozze teorie sociali rianimate dall’assidua cura che gli riserva lo spettacolo integrato dei professori di Stato con al seguito i professionisti mediatici dell’intanto cominciare da sé stessi.
Magari ai vostri occhi è tuttavia sempre più “artistico” ispirarsi a Dan Brown e all’esoterismo13 piuttosto che a Marx e al materialismo.
Ma non credete che invece noi abbiamo l’alito così pesante semplicemente perché non amiamo mangiare brioches: noi siamo divoratori di brioches.
Soltanto che, almeno ai nostri occhi, il mangiare, il bere, il generare, e così via,  sono in effetti anche schiette funzioni umane, ma sono bestiali nell’astrazione che le separa dal restante cerchio dell’umana attività e ne fa degli scopi ultimi e unici.14
1 - “In un mondo del genere essere dell’avant-garde era solo una variante istituzionalizzata del gioco generale. Era una sorta di rito di iniziazione: un darsi per un momento alla macchia, per poi tornare alla condizione privilegiata nel mondo che si era lasciato. Era una suola di perfezionamento, una normale forma di arrampicamento sociale. – Timothy J. Clark, Immagine del popolo, Gustave Courbet e la rivoluzione del ’48, ed. Einaudi, Torino 1978, p.9. 
2 - “Per sopprime il pensiero della proprietà privata basta del tutto il comunismo pensato.  Per sopprimere la reale proprietà privata ci vuole una reale azione comunista. La storia la recherà, e quel movimento, che nel pensiero sappiamo già come tale che sopprime se stesso, nella realtà percorrerà un processo molto aspro e lungo. Ma dobbiamo considerare come un reale progresso il fatto di aver acquistato, fin dal principio, coscienza tanto del limite che dello scopo del movimento storico, e una coscienza che sorpassa esso movimento”. - Karl Marx: Bisogno, produzione e divisione del lavoro (1843), in Opere filosofiche giovanili, cit. p. 242-243).
3 - Bourriaud, cit. p. 121.
4 - L’unica virtù rivoluzionaria è la pazienza, credo abbia detto letteralmente Troskji.
5 - “La nostra epoca non manca di un progetto politico, ma è in attesa di forme suscettibili d’incarnarlo, e che dunque gli permettano di materializzarsi. Perché la forma produce o modella il senso, lo orienta e lo trasmette nella vita quotidiana.”; Bourriaud, cit. p. 80.
6 -  “La cultura rivoluzionaria ha creato o reso popolare vari tipi di partecipazione sociale: l’assemblea (soviet, agorà), il sit-in, la manifestazione e i cortei, lo sciopero e le sue declinazioni visive (striscione, volantino, organizzazione dello spazio…)”. Bourriaud, cit. p. 80.
7 - Roger Caillois, Atene di fronte a Filippo. Vedi in no.made n. 0,2 - 2008, p. 24 (59).
8 - Questo fenomeno, che ha trovato nelle attuali contingenze sociali anche la tecnologia adeguata per il suo potenziamento, potrebbe definirsi di immaginazione preventiva, con una formula coniata nei primi anni Settanta con tutt’altra intenzione, e che come tale avrebbe potuto restare una etichetta soddisfatta di indicare solo ciò che realizzava l’Ufficio per la Immaginazione Preventiva. Superati gli ardori giovanili, quella stimolante definizione conservata nel solco della continuità e dell’invarianza ha potuto trovare solo adesso un senso preciso e una estesa concretezza, dalla quale, eventualmente, ripartire.
9 - Rousseau, Lettera sugli spettacoli, riportato in Starobinski, cit. p. 89.
10 - Kar Marx, Bisogno, produzione e divisione del lavoro (1843), in Opere filosofiche giovanili, cit. p. 242-243.
11 - Al posto della forma comunistica voi potete metterci pure quella che più vi piace; solo fate in modo (se ci riuscite) che non sia l’ennesima scadente caricatura in versione patetica dell’attuale forma dominante.
12 - “A nostro avviso la progressiva estensione del monopolio intellettuale minaccia sia la nostra prosperità sia la nostra libertà, e così facendo minaccia di uccidere la gallina dalle uova d’oro della civiltà occidentale strangolando, alla distanza, l’innovazione.[…] Nei decenni a venire sostenere il progresso economico dipenderà, sempre più, dalla nostra capacità di ridurre (ed eventualmente eliminare) il monopolio intellettuale”. Michele Boldrin, David K. Levine, Abolire la proprietà intellettuale, ed. Laterza, gennaio 2012. - Appena uscito, il libro dei due professori di economia alla Washington University di St Louis, ci è stato segnalato in una newsletters di n+1 accompagnandolo da questo commento conclusivo: “La proprietà privata, priva, appunto, tutta la nostra specie del libero godimento di conoscenze che sono sempre il risultato di una lavoro collettivo anche se in dati frangenti sintetizzate in un solo individuo”. Possiamo aggiungere che i due professori sono capaci di arrivare a immaginare l’abolizione di una particolare proprietà privata, sia pure la più fetente, ma non osano estendere le loro argomentazioni per includere nella loro negazione la proprietà privata stessa e in generale.
13 - “Cremaster, cita la massoneria, la mitologia celtica e le tribù perdute di Israele, e spazia in un lasso di tempo che va dal 1874, anno della nascita di Henry Houdini, al 1977, anno il killer Gary Gilmore venne condannato a morte. […] Come nel Moby Dick di Melville, la tetralogia di Barney è trasgressiva e mistica: mistica in materia di luoghi e oggetti, ricca di un umorismo rabelaisiano, di esagerazioni, di riferimenti storici, biblici e mitologici,,,”. Jerry Saltz, 2003, cit. p. 95 e 97.
14 - Marx, Il lavoro alienato, in cit. p. 197.











Brioche à la crème ad iniziare dal 1965
[ Festa di compleanno per la nostra cara amica Elisabetta ]


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Immagine in alto: Luciano Trina